[…] a me interessa l’india rurale, in fondo quasi animale. l’altra india mi pare una caricatura nostra e non mi riguarda. […]
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la Hampi che io ho visitato due decenni fa è così diversa da quella patinata per super-ricchi che scopro (come temevo) attraverso una rapida esplorazione in internet, che allora dei modestissimi contadini lavoravano i loro campi spelacchiati vicino alle affascinanti rovine dell’antica capitale imperiale di Vijayanagar, questa specie di antica Roma del Deccan.
ma dovrei dire piuttosto quasi al suo interno.
scene simili, nelle quali i resti archeologici si mescolano ad una vita rurale quasi altrettanto antica, ma presente le ho viste soltanto in Siria, a Palmira e altri luoghi di quello stato, nel mio viaggio del 2003, senza videocamera né macchina fotografica, ma lì sono sicuro che il turismo industrializzato, di plastica, non è ancora arrivato.
così il mio sguardo indugia oggi, su quelle riprese, in vista del loro laborioso montaggio, tra il movimento dei bovini dalle corna dipinte di vivaci colori e i gesti antichi dei contadini, e si sofferma poi, per qualche istantanea sui loro volti seri, segnati dalle rughe di una saggezza esistenziale che non ammette il sorriso.
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ma voglio aggiungere qualcosa di particolare, che pure traspare da questo breve video, ed è la grande familiarità, direi quasi la fraternità, nella durezza del lavoro, tra uomini e mucche.
la spiegò molto bene Alfredo Todisco in un libro scritto con grande finezza di stile e oggi totalmente, ma ingiustamente dimenticato: Viaggio in India.
qui raccolse nel 1966, per gli Oscar Mondadori, i reportage che aveva scritto per La Stampa nel 1960, emulo di Gozzano che aveva pubblicato dei reportage simili mezzo secolo prima, ma i suoi erano in bella parte soltanto immaginari.
non vorrei sbagliare, ma ho l’impressione che quei suoi articoli abbiano costituito un preciso punto di riferimento per il resoconto che l’anno dopo Pasolini fece, con L’odore dell’India, di un suo simile viaggio laggiù: talmente strette sono le analogie, ma soprattutto condivisa una visione dell’India nell’ottica quasi esclusiva della sua povertà, da cui forse solo Todisco si distacca un poco di più, per qualche considerazione più varia.
naturalmente le coincidenze possono essere soltanto il riflesso di una visione dell’India tipica di quegli anni: non posso dimenticare, ad esempio, la frase ricorrente con cui si concludevano nella mia infanzia pranzi e cene, quando mi veniva ordinato di non lascare avanzi nel piatto: pensa ai bambini dell’India che muoiono di fame.
l’India era vista allora come patria allucinata di una fame estrema, di una povertà quasi illimitata, da cui germoglia tuttavia una angelica gentilezza: è l’India di Todisco e Pasolini.
e qui devo fare mente locale e sforzarmi di capire razionalmente che quasi un altro mezzo secolo separava i miei viaggi in India da quelli di Todisco, Pasolini, Moravia, e non è per nulla strano che la mia India sia vista in modo tanto diverso.
così come oramai quasi un altro ventennio separa me da questo viaggio, e così non è strano che anche la mia India sia legata ad un modo passato di vederla: la mia India è oramai più l’India della mia memoria, che quella del presente.
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Todisco dedica un capitolo intero dei suoi resoconti, ricondotti a volume, ad un aspetto anche quasi incomprensibile per noi, della cultura indiana, che è il rapporto con gli animali.
descrive con cura l’Ospedale per gli uccelli di Delhi, che avrei visto anche io tre anni dopo, dove i seguaci della religione jainista raccolgono e curano da tutto il paese volatili feriti o malati, per poi restituirli alla natura, se possibile.
ma, per quel che riguarda il rapporto affettivo speciale, che lega tutti gli indiani di religione hindu alle mucche, che considerano sacre, ha parole così belle, che a me non resta che ricopiarle, come commento a qualche immagine anche del mio video:
Per capire l’intensità dei sentimenti che legano alla mucca gli indù, basti dire che per essi è il simbolo della madre. La buona madre che dà il latte al popolo indiano, come dire l’essenza della vita in un mondo avaro e ostile. Gandhi arrivò a dire che la mucca, sotto certi aspetti, è anche meglio della madre. Nostra madre, egli disse, ci dà il latte dolo per un paio di anni, e poi si aspetta che noi la serviamo con il massimo rispetto. Ma la mucca, invece, non ci chiede niente altro che un pugno di erba… La protezione della mucca è uno dei fenomeni più nobili della evoluzione del genere umano, essa innalza l’umanità aldilà dei suoi stessi limiti.
ecco, sono parole che aiutano a riempire di significato queste immagini che ci mostrano donne e uomini assorti in un lavoro durissimo, ma reso quasi più mite dallo sguardo materno delle mucche vicine a loro.
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in un altro passo Todisco scrive:
Uccidere una mucca, un bue, un vitello, per gli indù è una sacrilegio simile all’omicidio. Mangiare carni bovine è per loro inconcepibile come per noi l’antropofagia. Si tratta di regole antichissime, che un tempo erano certamente in armonia con i capisaldi della antica società indù. […] Fino ad un certo punto della storia, gli indiani dovettero identificare la protezione della mucca con la loro stessa sopravvivenza. Nel senso che la mucca dava tutto quanto era necessario ai bisogni fondamentali dell’esistenza, il latte, il bue da lavoro, il concime, il combustibile. infatti gli escrementi seccati della mucca hanno appunto anche questo uso.
ed ecco qualcosa della saggezza umana che ci ritorna come suggerimento almeno a diminuire la presenza della carne nella nostra dieta, oggi scelta necessaria più che mai a difesa degli equilibri ambientali compromessi del pianeta.
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